IL PROCESSO "CONTRA FRANCISCUM BUSA DE PLOVENIS"
Il castello di Belvicino conobbe momenti burrascosi, fu teatro di scontri armati, assedi, tradimenti, che coinvolsero personalità di un certo rilievo, come vescovi e conti; ma nei suoi seicento e più anni di storia questi avvenimenti costituirono l'eccezione, che interrompeva periodi più o meno lunghi in cui la vita tra le mura si svolgeva tranquilla, segnata dalle occupazioni quotidiane, quasi banali nella loro normalità. I fatti più appariscenti, quelli da libro di storia, sono i più conosciuti e studiati; la vita "normale" del castello invece rimane ancora per la maggior parte sconosciuta. Alcuni documenti, solo in parte studiati, contengono importanti informazioni che permettono di ricostruire momenti e aspetti meno noti della storia del castello: per esempio le provvisioni, di cui si è parlato in precedenza, costituiscono una miniera di notizie sulla struttura del castello, il suo aspetto, le difese di cui era dotato.
Un episodio, poco conosciuto, lo troviamo riportato in un manoscritto di casa Bottari, trascritto dall'abate Pietro Maraschin: si tratta del processo contro un certo Francesco Busa da Piovene, celebrato appunto nel castello di Belvicino"(35).
Siamo nel 1510, in piena guerra contro la lega di Cambrai: Venezia è impegnata nella strenua difesa del proprio territorio invaso. Nella Val Leogra, percorsa da truppe imperiali provenienti dal Trentino e dirette verso Vicenza e Padova, la situazione dal punto di vista militare è poco chiara: il castello di Belvicino, conquistato da Leonardo Trissino per conto dell'imperatore nel giugno del 1509, alla fine dello stesso anno torna in possesso dei veneziani; però nell'agosto del 1510, quando cioè ospita il processo, il castello risulta essere nuovamente sotto il controllo dei tedeschi nemici della Serenissima Repubblica (36) e vi rimane fino alla fine di agosto, sempre del 1510.
Il 15 agosto di questo anno Francesco Busa, fur publicus, latro et assassinus, è consegnato ai magistrati di Schio; da qui lo stesso giorno il capitano di Schio Nicolò da Sale ...iussit predictum Franciscum duci ad castrum Belvicini, et ibi per D. Bonin de Ceris castellanum custodiri... (37) viene portato nel carcere del castello di Belvicino a disposizione dei giudici.
Venerdì 16 agosto inizia il processo con l'interrogatorio dell'imputato, presente Dominus Capitaneus Scledi Nicolaus a Sale; Francesco Busa dichiara di non conoscere i motivi del suo arresto; ammette solo di aver rapinato alcuni mulattieri dei loro muli carichi di vino: era successo presso Rocchette, sulla strada per Meda, nel novembre dell'anno precedente.
Ammonito a confessare, risponde di non aver null'altro da dire, per cui il Capitaneus comanda di portarlo ad locum torture; qui Francesco Busa ripete "non so che dire" ma, dopo aver subito una non meglio precisata quassata, ammette di aver trovato un manzo bianco di circa due anni, di averlo portato ad villam Chiupani e venduto ad un macellaio di questo paese.
Il Capitaneus lo invita a dire la verità su altri delitti ma, non ottenendo risposta, è costretto a ricorrere ancora ai mezzi di persuasione normalmente in uso nei processi di quei tempi: l'imputato viene appeso con un pietra legata ai piedi. "Lasseme zoso che dirò la verità", implora a questo punto Francesco Busa che, appena messo a sedere, confessa di essersi introdotto con alcuni complici nella casa di Pietro Chinia di Piovene e di aver portato via con la violenza la dote (bona sponsalitica); ma poi la paura della scomunica gli aveva fatto restituire la sua parte di refurtiva ad un prete.
"Appeso" un'altra volta, rivela di aver rapinato, con alcuni complici, tre "alemanni che venivano dal campo"; la refurtiva, nascosta in un bosco, è trovata però da un certo Sartorello da Chiupan.
Sospeso nei giorni di sabato e domenica, il processo riprende lunedì 19 agosto; Francesco Busa conclude la sua confessione ammettendo la rapina ai danni di Tomio Crivellaro di Meda, che frutta "certi beni mobili e una cavalla", più qualche capo di vestiario.
Lo stesso giorno l'imputato firma il testo della confessione, tradotto in lingua volgare, alla presenza di Joanne Jorgio a Sojo, vice decano di Schio, Amadeo a Sojo, sindicus di Schio, Gardelino de Gardelinis e Jacobo Marangono de Arserio. Quindi all'imputato vengono concessi tre giorni per la difesa, per la quale sceglie, come "procuratore", un certo dominus Franciscus de Vallis.
Nel manoscritto non sono riportate notizie sullo svolgimento di questa fase processuale, si passa subito alla sententia corporalis, solennemente proclamata alle ore 12 di venerdì 23 agosto 1510: Nicolaus a Sale, Magnificus Dominus Capitaneus Scledi, ...sedens cum virga et baculo iustitie in manu (38), elenca le aggressioni e le rapine commesse da Francesco Busa, definito ladro e assassino, "mai soddisfatto, pronto ad aggiungere male a male, non avendo Dio davanti agli occhi, ma il nemico dell'umana natura (= il diavolo)" (39); quindi, "perchè non si possa vantare delle sue cattive azioni, ma piuttosto sia di esempio per gli altri", quo dictus Franciscus Busa conductus ad locum justitie ibi per gulam appendatur ad eo quod anima ex corpore separetur, condemnamus...". (40)
Nel manoscritto non è precisato il locum justitie, la località dove il reo fu giustiziato; è riportata invece la dichiarazione di Amadeus a Sojo, Jorgus a Sojo e Angelus Cavalerius, i quali attestano di aver applicato la sentenza capitale alla presenza di alcuni testimoni.
Il contenuto di questo manoscritto che, a parte il tragico destino del protagonista, è interessante e di piacevole lettura, arricchisce di nuovi particolari la nostra conoscenza del castello: in questo periodo non costituisce solo una struttura militare per la difesa ed il controllo del territorio, ma è anche sede di tribunale per l'amministrazione della giustizia; inoltre è dotato di locali adibiti a carcere e di una stanza per la tortura.
Passando ad un'analisi un po' più approfondita del contenuto, ci si può chiedere come mai il processo venga celebrato nel castello di Belvicino, quando quello di Schio è più agevolmente accessibile da parte dei magistrati e delle alte autorità che vi prendono parte. Forse che questi funzionari, espressione del potere imperiale allora dominante, ma straniero e perciò inviso alla popolazione, si sentono più protetti e sicuri nella rocca isolata, sulla vetta del monte?
La condanna a morte dell'imputato ci sembra una pena spropositata per un ladro; nel verbale del processo Francesco Busa è definito assassinus, però non sono riportati crimini di sangue a prova di questa accusa: si parla solo di furti e rapine. L'accanimento contro il malfattore di Piovene è conseguenza della volontà politica degli imperiali occupanti di dare un segno chiaro del loro potere? I magistrati hanno voluto punire severamente l'offesa subita dai tre connazionali tedeschi rapinati da Francesco Busa? Oppure il ladro di strada, nel torbido e disordinato periodo della guerra, si è trovato coinvolto in un gioco più grande di lui?
Altri approfondimenti potrebbero riguardare il sistema giudiziario in vigore sotto la Serenissima (o l'Impero Asburgico?), il significato ed il valore delle cariche pubbliche (ufficialis, capitaneus, locumtenens, cancellarius, ecc. ).
Oggetto di indagine specifica potrebbero essere infine i nomi di luogo e di persona oggi scomparsi o ancora in uso (Olivari, Sale, Sojo, Vigolo, ecc. ).
Ci siamo limitati ad una semplice lettura del fatto, ma il manoscritto, se oggetto di analisi approfondita ed articolata, potrebbe offrire abbondanza di informazioni e notizie, spunti per ulteriori esplorazioni e scoperte.
Tratto da
"Il castello di Belvicino" Appunti storici e ricerche nel 50° anniversario dell'erezione della croce 1949-1999,
a cura del GRUPPO PER IL RESTAURO DELL'ANTICA PIEVE, Pievebelvicino 1999
Note
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35 Autore del verbale del processo e delle parti tradotte dal latino al volgare fu Joannes Antonius de Vigolo Notarius Civis Tridentis Cancellarius Scledi: Giovanni Antonio da Vigolo, notaio cittadino di Trento, cancelliere di Schio.
36 Nel documento riportato dall'abate Pietro Maraschin si legge che Antonio Dottor de Mori di Norimberg, "Cesario Cancelliero in Schio", il 7 luglio 1510 nomina "Antonio da Vigolo notajo, e cittadino di Trento, ...sopra l'officio della cancelleria di Schio". Nello stesso periodo podestà e capitano di Schio è Nicolaus a Sale, anch'egli cittadino di Trento. La presenza di questi funzionari imperiali nel pieno delle loro funzioni, è chiara indicazione che sulle nostre terre in quel momento esercita la propria autorità sovrana l'imperatore Massimiliano d'Asburgo.
37 "comandò che il predetto Francesco fosse condotto nel castello di Belvicino sotto la custodia del castellano signor Bonin de Ceris"
38 "seduto con in mano lo scettro e il bastone della giustizia"
39 "...non contentus, malum mali addendo, Deum pre oculis non habendo, sed potius inimicus humane nature..."
40 "condannato il predetto Francesco Busa a essere condotto nel luogo della giustizia e ad essere appeso per il collo, finchè l'anima non si separi dal corpo"
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